GLI SCOPI SOCIALI
Siamo un centro socio culturale che, attraverso la promozione di attività culturali, ricreative, motorie, turistiche e ludiche, si propone di elevare la condizione degli anziani, tramite una partecipazione attiva in un ottica di prolungamento del buon stato psico fisico, di valorizzazione dei loro saperi e valori, nonché di prevenzione verso forme di disagio derivanti da solitudine ed emarginazione.
Siamo un centro sociale anziani affiliato all’Associazione riconosciuta “ANCESCAO aps” (Associazione Nazionale Centri Sociali Anziani e Orti aps). Le attività sono rivolte ai nostri soci, i quali hanno anche il diritto di partecipare agli incontri assembleari e candidarsi agli organi amministrativi dell’associazione. Tutti gli iscritti “ANCESCAO aps” di altri centri possono partecipare alle nostre iniziative, fatta eccezione per i momenti assembleari e per la candidatura agli organi amministrativi. Alle iniziative di carattere conferenziale/culturale, con ingresso gratuito, possono partecipare invece tutti i cittadini.
Se vuoi sostenerci puoi approfondire i nostri scopi sociali ed iscriverti al centro, scaricando e riempiendo la domanda di ammissione ed il questionario dei tuoi interessi aspirazioni, quindi partecipando alle nostre iniziative.
LA STORIA
Le attività del centro sociale iniziarono nella seconda metà degli anni ’70, su iniziativa della Circoscrizione n. 3 (organo amministrativo decentrato del Comune di Siena), che fin dai suoi albori aveva attivato un Comitato che promuoveva l’aggregazione dei cittadini anziani, con l’ausilio delle assistenti sociali, della segreteria di circoscrizione, del suo Presidente e Consiglieri.
Venivano promosse gite, piccole manutenzioni scolastiche e in aree verdi, incontri con gli studenti, conferenze ed altri momenti di socializzazione. Si attivò subito una folta partecipazione, che crebbe ulteriormente quando le circoscrizioni furono ridotte a cinque e si ampliò il territorio di competenza. Alle consuete attività si aggiunsero quella corale e teatrale. Purtroppo si erano persi i lavori di piccole manutenzioni, per una controversia con l’Ufficio del Lavoro.
Le iniziative di socializzazione riscuotevano grande consenso e si svolgevano principalmente presso le sedi di circoli zonali e parrocchie, ma la grande partecipazione che si sviluppava richiedeva la disponibilità di una sede propria. Attraverso gli Assessori comunali al Decentramento e al Patrimonio vennero individuati dei locali che erano ancora concessi in comodato all’Esercito Italiano, con i cui comandi fu avviata una trattativa, ma nel frattempo ci consentirono di entrare in una parte di essi, ormai inutilizzati, che poi divennero la nostra attuale sede.
Nell’anno 1988, in concomitanza con la fine di un mandato amministrativo delle Circoscrizioni, fu deciso di dare al Comitato Anziani una vita e una organizzazione autonoma, per non rischiare di disperdere quel patrimonio organizzativo e di partecipazione che si era creato con il lavoro di molti anni. Fu così che il 14 luglio 1988 fu costituito il “Centro di iniziative socio culturali per la terza età della Circoscrizione n. 3”, successivamente abbreviato in “Centro socio culturale La lunga Gioventù”.
Si attivarono così nuovi stimoli e le iniziative fervevano, passando anche attraverso attività editoriali. per alcuni anni abbiamo pubblicato il nostro giornale mensile “IL VESPRO“, la cui attività è cessata nei primi anni ’90. Abbiamo anche pubblicato cinque libri, scritti da Giuseppe Ciani, il primo Presidente della Circoscrizione che attivò il lavoro del Comitato anziani. Il primo libro usci in concomitanza con l’anno di costituzione, nel dicembre 1988 dal titolo “La lunga gioventù” (che sarebbe poi diventato il nostro nome); il secondo uscì ne febbraio 1992 dal titolo “Voci e volti sul far della sera“; il terzo usci nell’ottobre 1994 dal titolo “Vita e teatro della terza età“; il quarto uscì nel dicembre 1996 dal titolo “Presenze di vita” e l’ultimo nel 1998 dal titolo “La notte siamo noi“.
Con grande entusiasmo, aggiungendo sempre nuovi stimoli siamo giunti ai giorni nostri.
Se volete approfondire la nostra storia, la potrete appezzare nel sottostante video, realizzato in occasione del 30° anniversario della nostra costituzione. Clicca qui: https://www.youtube.com/watch?v=tcHXmvAwmPs
L’ORGANO AMMINISTRATIVO
Il Consiglio Direttivo ha una durata triennale, nell’immagine a fianco è riportata la composizione degli attuali organi amministrativi, eletti a scrutinio segreto, con grande partecipazione di soci, in data 14 e 15 aprile 2018.
Nel corso del 2021 andranno rieletti gli organi stessi, sulla base del nuovo statuto, aggiornato ed approvato nell’Assemblea Generale dei Soci del 25 maggio 2019.
CENNI STORICI SULLA SEDE (ricerca della Dott.ssa Patrizia Turrini)
Un grande fabbricato con:
due conventi di suore
un orfanotrofio
una compagnia laicale
un istituto per vedove
alcune associazioni impegnate nel sociale
Santa Caterina di Vita Eterna, le Serve di Maria, la Congregazione degli orfani
Nel 1494 il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, arcivescovo di Siena, autorizzava alcune terziarie domenicane a fondare l’istituto di Santa Caterina, detto di Vita Eterna (o anche Viteterna), sul lato destro della strada “della Badia nuova” verso porta San Viene (porta Pispini). Queste “mantellate” avevano lasciato il convento di Santa Caterina del Paradiso, fondato tra il 1477 e il 1482 sul poggio Malavolti (dove oggi sono piazza della Posta e via del Paradiso), e si erano poste sotto la guida dei domenicani di Santo Spirito. Il pontefice Alessandro VI (Rodrigo Borgia) confermava l’autorizzazione vescovile, fissando a trentotto il numero massimo di terziarie che potevano abitare nel nuovo convento. Si può così dire che la fondazione di Vita Eterna si deve al papa regnante, il Borgia, e al suo successore, il Piccolomini, che nel 1503 sarà Pio III anche se soltanto per un mese. Qualche tempo dopo, per decisione del Comune di Siena, le suore cambiarono regola e presero quella agostiniana: probabilmente i governanti tentarono, con questo provvedimento, di limitare l’influenza del frati del vicinissimo convento di Santo Spirito, che comunque continuavano a svolgere il ruolo di confessori.
Contigua, ancor più vicina a porta San Viene (Pispini), si trovava la “casa” delle Serve di Maria, anch’esse terziarie, di fondazione della famiglia Malavolti, che fu abbandonata al tempo della guerra di Siena (1552-1555). Pertanto, nella seconda metà del Cinquecento, l’edificio già delle Serve di Maria fu in parte incamerato dal convento di Vita Eterna che così si ingrandì, in parte adibito ad orfanotrofio, per concessione fatta “per amore di Dio” dalla famiglia Malavolti
alla Congregazione degli orfani che si assunse l’obbligo del canone annuo di una libbra di cera. A partire dal 1570 i ragazzi privi di genitori vennero affidati dalla Balìa ai padri della Congregazione somasca (appena fondata a Bergamo). Il primo governatore del luogo pio fu, secondo alcune memorie, il padre somasco Giovanni detto il Moro, in quanto di origini arabe, mandato da Bergamo a Siena allo scopo di curare gli orfani e morto in odore di santità. Il 27 luglio 1575, comunque, l’arcivescovo Francesco Bossi, visitatore apostolico della diocesi di Siena, fu accolto nell’orfanotrofio da un altro somasco, Agostino Manenti. Il Bossi annotava che nell’oratorio annesso al luogo pio – nella relazione non ne è citato il titolo, ma sappiamo da Girolamo Gigli (nel Diario sanese del 1723) che era dedicato ai Santi Innocenti, con festa il 28 dicembre – vi era sull’altare un tabernacolo di legno dipinto, dove era conservata una pisside di rame dorato con più particole; saputo da don Agostino Manenti che i fanciulli in custodia si comunicavano una o due volte al mese, il ligio arcivescovo ordinò che si conservasse soltanto un’ostia per l’adorazione e che le altre fossero consacrate volta per volta. Il tabernacolo era coperto da una tela di seta celeste, davanti ardeva di continuo una lampada; l’altare aveva tre tovaglie, un paliotto di tela rossa, una congrua predella, due candelabri d’ottone e due di legno; l’immagine sacra era quella della Vergine, sopra erano posti due Angeli portanti i misteri della Passione, ma nudi, pertanto il visitatore, in pieno clima controriformistico, ordinò di coprirli o toglierli. L’arcivescovo fece poi ingresso nell’orfanotrofio; qui vide un’aula scolastica dove erano una cinquantina di ragazzi, i quali recitarono esattamente la dottrina cristiana di fronte a lui. Don Agostino, interrogato, chiarì che nell’istituto, posto sotto i governanti di Siena, erano accolti gli orfani in età dai sette ai dodici anni, i quali erano poi lì mantenuti e istruiti; lui stesso e un altro maestro insegnavano loro a leggere, a scrivere, la dottrina cristiana e anche la grammatica; ogni giorno i ragazzi recitavano l’ufficio della Madonna, le litanie e le orazioni. La Balia ogni anno eleggeva due deputati che amministravano le entrate e le uscite. A diciotto/venti anni alcuni ragazzi venivano mandati a fare gli apprendisti, altri divenivano sacerdoti o monaci, altri rimanevano nell’orfanotrofio dove svolgevano varie attività. Nel 1575 era camarlengo e amministratore dell’ospedale degli orfani dominus Bono Galli.
Suore costrette in clausura
Sempre nel 1575, l’arcivescovo Bossi compiva una serie di ‘rigorose ispezioni’ nei conventi e monasteri femminili della diocesi di Siena con l’intento di imporre in tutti una stretta clausura, secondo i dettami tridentini; inizialmente le suore si ribellarono a un cambiamento così pesante rispetto alla libertà, seppure moderata, di cui avevano potuto godere fino a quel momento, ma alla lunga gli intenti moralizzatori ebbero successo, rendendo conventi e monasteri delle vere e proprie ‘prigioni’ per donne che per lo più vi erano entrate per politiche familiari e non per vera vocazione.
Intanto, il 4 agosto di quell’anno 1575, le suore di Santa Caterina di Vita Eterna accolsero il visitatore apostolico Bossi, il quale faceva il suo solenne ingresso nella chiesa annessa al convento, accompagnato da alti prelati senesi, dai deputati laici e da padre Filippo, priore dei domenicani del vicino convento di Santo Spirito, sotto la cui cura spirituale erano poste quelle religiose. Nella chiesa erano tenuti sia l’olio santo, sia il santissimo sacramento, rinnovato ogni otto giorni, in una pisside d’argento dentro un tabernacolo ligneo; subito il visitatore vietò tale conservazione, non permessa in una chiesa non curata. Sull’altare vi era una “bellissima tavola a fondo oro con l’immagine della Vergine e di altri Santi”. L’edificio claustrale risultò abbastanza angusto, con sei/sette celle, nelle quali dormivano le suore che ne erano “proprietarie”, mentre le altre stavano in due dormitori e le novizie in un terzo dormitorio. Il giardino era invece ‘ameno e spazioso’, dotato di un grande orto che confinava, tramite una siepe e non un muro, con gli orti dei monasteri del Santuccio e di Santa Monaca, e tramite un muro con la piccola proprietà di alcuni privati; una porta permetteva all’ortolano di entrare dalla valle nei terreni annessi al monastero e così di uscire. L’arcivescovo Bossi interrogava la priora Raffaella del Cotone, la camarlenga (addetta all’amministrazione) Maria, la cellaria (addetta alla dispensa) Laudomia e le suore Plausilla e Faustina, le quali rispondevano che la regola era “agostiniana”, il numero di suore trentuno, oltre a sette “servitiali” (cioè converse) e otto novizie che avevano già consegnato la loro dote; tutte avevano fatto la loro professione con i voti di povertà, castità e obbedienza, secondo la regola, eccetto quattro, non ancora fornite dai parenti di tutto quello che era necessario per entrare definitivamente nel convento. La priora e le altre collaboratrici ammisero di uscire per necessità, per andare a casa dei loro parenti se ammalati, oppure per essere sovvenute di cibarie o altri generi dagli stessi parenti, e di rimanere talvolta dai loro genitori e fratelli; inoltre nel periodo delle raccolte (di grano, uva, olio) andavano nei poderi del convento e vi rimanevano per pochi giorni; si recavano in campagna anche dopo una malattia per il periodo di convalescenza, se consigliato dal medico.
Da altra documentazione risulta l’ubicazione dei possedimenti terrieri delle suore di Vita Eterna, seppure con riferimento alla fine del secolo XVII: dieci poderi, con una rendita annua totale di 527 scudi, nei comuni e comunelli di Abbadia a Quarto (podere Fulino), Marciano (Casa Nuova, Orcia), Sant’Eugenia (Poderino), Asciano (Querci), Montaperti (Larniano di Mezzo), Buonconvento (Borgo Forello), Quinciano (Casino) e Sovicille (Palazzanelli due poderi).
Tornando all’interrogatorio condotto dall’arcivescovo Bossi, la priora e le sue collaboratrici ammisero che nell’edificio entravano i laici: gli uomini si fermavano però nel parlatorio, le donne invece entravano all’interno, specie se madri o parenti di qualche suora ammalata, e si fermavano a dormire se venivano da fuori o anche in caso di pioggia o maltempo; inoltre nella settimana santa le nipoti delle suore si recavano a trovarle e rimanevano per alcuni giorni. Le suore non andavano invece a questuare fuori dal monastero; si mantenevano infatti con le entrate dei poderi, con le doti e con gli aiuti elargiti dalle famiglie. A questo punto l’arcivescovo Bossi ordinò di radunare il capitolo e davanti a tutte le suore tenne una predica accorata richiamandole all’osservanza della clausura, sulla base delle recenti bolle pontificie in materia. Il successivo 5 settembre il Bossi mandava alle priore dei sette “monasteri aperti”, tra cui suor Raffaella, un’ulteriore esortazione a sottomettere se stesse e gli istituti governati alla clausura, proibendo inoltre di conservare nelle chiese l’olio santo e il santissimo sacramento. Pochi giorni dopo il Bossi constatava che il confessore di Vita Eterna era morto e che il priore di Santo Spirito padre Filippo, che lo aveva sostituito in questo compito, si era ammalato (diplomaticamente?). Il 27 settembre, dopo la paterna predica e la conseguente esortazione, il visitatore passava alle maniere forti con un’intimazione scritta rivolta agli istituti “aperti”, tra cui quello di Vita Eterna, stabilendo che in essi fosse proibito ricevere nuove professe fino a che non fosse osservata una completa clausura, in tal modo “in processo di tempo” gli stessi istituti si sarebbero estinti. Alla presenza di Lelio Pecci e Bernardino Tantucci, i due deputati incaricati dalla Balìa alla sorveglianza dei monasteri senesi, il cancelliere dell’arcivescovo Bossi, Luca Testoni, consegnava il 1 ottobre tale intimazione alle varie priore, tra cui suor Raffaella del Cotone. Sappiamo che seguì un lungo periodo di accese proteste e ribellioni, ma che nel 1597-1599, cioè dopo una ventina e più anni, le suore senesi si piegarono obtorto collo alla rigida clausura, dato che era stata messa in pericolo l’esistenza anche di loro stesse: la proibizione di nuove professe significava, infatti, il mancato afflusso di nuove doti, linfa indispensabile per il mantenimento anche delle religiose già presenti negli istituti. Comunque le proteste, i fermenti e lo scarso entusiasmo per la clausura non cessarono almeno per tutta la prima metà del Seicento.
La chiesa di San Giacinto
Nella relazione lasciata dal Bossi la chiesa appartenente al monastero di Vita Eterna è citata senza indicarne il titolo. La dedica a San Giacinto, con cui ancora oggi è conosciuta, è senz’altro successiva alla visita del 1575, in quanto la canonizzazione di questo Santo domenicano di origini polacche risale al 1594. Quanto alle opere d’arte presenti nel 1575, il visitatore ha lasciato memoria soltanto di una bellissima tavola a fondo oro con l’immagine della Vergine e di altri Santi, posta sull’altare; potrebbe trattarsi della Madonna del Rosario attribuita da alcuni eruditi a fra Paolino da Pistoia, anche perché questo pittore appartenente all’Ordine domenicano risulta avere lavorato nel 1516 all’affresco della Crocifissione nella vicina chiesa di Santo Spirito e pertanto potrebbe avere eseguito una pala per Vita Eterna. La tavola cinquecentesca, fosse o meno di fra Paolino, comunque era andata perduta nel Seicento, quando ne fu fatta una copia, posta sull’altare di sinistra, circondata tutto intorno da una serie 15 piccoli affreschi incorniciati di Giuseppe Nicola Nasini (1657-1736) dedicati allo stesso tema devozionale: I quindici misteri del Rosario (vedi sotto a destra).
La decorazione della chiesa di San Giacinto risale in massima parte ai primi decenni del Seicento, con l’intento di celebrare il nuovo titolare, San Giacinto, scelto per il legame di queste suore con l’Ordine domenicano di partenza, mantenuto grazie anche ai frati di Santo Spirito. Sull’altare maggiore Francesco Rustici detto il Rustichino eseguì un ‘sublime’ olio su tela, San Giacinto risana due fanciulli ciechi, datato 1615 e firmato.
Sull’altare destro lo stesso Francesco Rustici, insieme al padre Vincenzo, realizzava un altro olio su tela, Matrimonio mistico di Santa Caterina alla presenza dei santi Paolo, Giovanni Evangelista, Domenico e del profeta David, dedicato a Santa Caterina da Siena titolare del monastero fin dalla fondazione.
Del dipinto con San Giacinto sull’altare maggiore restano anche tre disegni pubblicati da Marco Ciampolini: due parziali (il Santo con le figure sulla sua destra), conservati alla Biblioteca comunale degli Intronati di Siena e ad Oxford (Ashmolean Museum), e uno con la composizione completa sempre ad Oxford. Le suore avevano fatto realizzare anche un raffinato coro ligneo e una cantoria barocca. Sempre Francesco Rustici aveva abbellito la facciata in cotto con un affresco oggi perduto.
A sinistra: matrimonio mistico di Santa Caterina alla presenza dei Santi Paolo, Giovanni Evangelista, Domenico e del profeta Davide di Francesco e Vincenzo Rustici
(alcune fonti attribuiscono il dipinto a Cristofano e Vincenzo Rustici, zio e padre di Francesco detto il Rustichino)
Agostiniane o Domenicane
L’erudito Curzio Sergardi (padre del noto letterato Lodovico, detto Quinto Settano) annotava, nella “Descrizione della città di Siena” redatta nel 1679, che a Vita Eterna stavano “50 madri” poste “sotto la regola di San Domenico”; le suore risultavano invece trentotto con “l’abito di S. Caterina” e sotto il governo di tre gentiluomini senesi, secondo quanto scriveva Girolamo Gigli qualche decennio dopo. La differenza sul numero di suore presenti si può spiegare con il contare o meno nel dato totale le serviziali e le novizie, mentre la circostanza che entrambi gli eruditi abbiano concordato sulla stessa regola domenicana mi fa presumere il ritorno di Vita Eterna già nel primo Seicento – data l’intitolazione della chiesa al domenicano San Giacinto – nell’alveo di partenza, probabilmente perché le costituzioni domenicane erano meno rigide rispetto a quelle agostiniane e anche perché era forte nelle suore il legame con Santa Caterina da Siena, la terziaria domenicana più nota.
Orfanelli in apprendistato
Lo stesso Curzio Sergardi precisava che la Congregazione dei poveri orfani era a quel tempo (cioè nel 1679) sotto la “soprintendenza di quattro nobili deputati del collegio di Balìa”, che in essa i fanciulli privi di genitori erano allevati “nel timor di Dio” e introdotti al momento opportuno “ad apprendere diverse arti”, che sei fra gli orfanelli più grandi ricevevano un sussidio a seguito del lascito testamentario di Celso Tolomei, il quale “nel costituire il Seminario de’ nobili volle riconoscere anche questi poveri figlioli”.
Nella relazione indirizzata nel 1739, nel periodo della Reggenza lorenese, alla Balìa di Siena e alla Consulta di Firenze, il prete e rettore Simone Mattii, oltre a ripercorrere la fondazione della congregazione da lui diretta, dava notizie sulla situazione presente. L’orfanotrofio contava, per il mantenimento dei ragazzi, sulle elemosine dei benefattori, pur in concorrenza con altri istituti simili; in particolare era stato destinatario di un generoso lascito testamentario di 400 scudi da parte di Celso Tolomei, lascito che però aveva potuto ottenere soltanto dopo una dispendiosa causa con il Collegio Tolomei, principale erede; la causa era durata ben 24 anni e si era da poco conclusa. Il regolamento prevedeva che il governo fosse affidato a quattro gentiluomini senesi deputati a vita dalla Balìa, i quali sceglievano come direttore un sacerdote, detto rettore, che educava gli orfani, indirizzandoli alle attività artigiane secondo le loro capacità, e amministrava entrate e uscite, rendendone conto ogni anno. Il rettore era mantenuto nel vitto e inoltre pagato 24 scudi all’anno. Al servizio degli orfani stava una donna, detta serva, con il mantenimento e un salario di 6 scudi all’anno, aiutata da una seconda donna che riceveva soltanto il vitto e qualche mancia. All’epoca nell’istituto venivano allevati dodici orfanelli (un numero davvero limitato rispetto ai cinquanta presenti nel 1575). Le entrate erano inferiori alle uscite, tanto che la congregazione era gravata da debiti pesanti, a causa dei recenti tempi calamitosi in cui erano mancate le raccolte di grano e a causa anche dei lavori che era stato necessario eseguire nello stabile.
Le raccolte di grano rimandano ai possedimenti rurali della Congregazione degli orfani: tre poderi fra i comunelli di Maggiano (Palazzetto e Peruzzo) e di Sant’Emiliano (Valli), con una rendita di 104 scudi all’anno.
La soppressione dell’orfanotrofio risale al 1779, quando il granduca Pietro Leopoldo creava, con intenti di razionalizzazione e per efficienza economica, un asilo per gli orfani e un asilo per le orfane, riunendo nelle due nuove istituzioni i vari enti, piccoli e grandi, che fino a quel momento si erano occupati, in modo frammentario, di assistenza ai ragazzi, maschi e femmine, privi di genitori.
Le suore di Vita Eterna attraverso il “Giornale Sanese” di Giovanni Antonio e Pietro Pecci
Nel Giornale sanese – una specie di diario giornaliero scritto a partire dal 1715 dall’erudito Giovanni Antonio Pecci e proseguito, dopo la sua morte avvenuta nel marzo 1768, dal figlio Pietro fino al 1794 – si rintracciano alcune brevi annotazioni sul convento di Vita Eterna. Giovanni Antonio Pecci segnala la partecipazione delle suore a varie celebrazioni religiose della città negli anni 1724-1725; indica poi come evento eccezionale la circostanza che nel settembre 1766 una suora del convento fosse l’erede di Pietro Cosatti. L’abate Pietro Pecci segnala che nella processione della Domenica in Albis del 10 aprile 1768 l’immagine principale prescelta per la processione, la statua di Sant’Antonio da Padova del convento di San Francesco, fu accompagnata dal “corpo di Santa Orsina che si conserva in un’urna delle monache di Vita Eterna”.
Nel 1775 inizia l’azione riformatrice voluta da Pietro Leopoldo nei confronti di confraternite e conventi; pertanto a settembre – così sottolinea Pietro Pecci – furono impedite nuove vestizioni in sei conventi senesi, fra cui quello di Vita Eterna; nel marzo 1776 fu revocato l’ordine per quel convento, a cui fu sostituito l’altro del Paradiso.
Nel successivo anno 1777, Pietro Leopoldo scriveva nelle Relazioni sul governo della Toscana che si era molto pentito di aver concesso tale revoca: egli infatti aveva annullato l’ordine di sospendere la vestizione, persuaso dalle insistenti preghiere di Lorenzo Calcei, uno dei più importanti e ricchi imprenditori di Siena, che aveva addotto la necessità dei mercanti senesi di servirsi proprio delle suore di Vita Eterna per la tessitura della seta. Il Granduca si era amaramente pentito della propria accondiscendenza quando aveva scoperto, proprio nell’estate del 1777, la realtà dei rapporti tra le monache di Vita Eterna e il mercante di seta: la perorazione del Calcei non era stata disinteressata, perché egli aveva ricevuto in cambio un regalo di 100 zecchini e la monacazione gratuita di una sua nipote!
Nell’ottobre 1783 le monache di Monnagnese, istituto soppresso, furono spostate in parte nel Refugio e in parte a Vita Eterna.
Nel 1785 Antonio Maria del Cotone e Francesco Azzoni presentarono una relazione alla Balìa sul convento di San Giacinto detto di Vita Eterna, alla cui sorveglianza erano deputati. Le suore seguivano la regola domenicana; le “velate”, in numero di 19, erano indifferentemente nobili o borghesi, mentre le 11 “converse” (dette anche “servigiali”) figlie di artigiani. Nell’istituto erano presenti dieci educande; si dava ricovero anche a vedove e separate “previa cognitione della causa”. I deputati i spiegarono il notevole numero delle “servigiali” (in linea però con quello di altri monasteri) con il fatto che le stesse lavoravano “tele di drappo” per molti mercanti, che erano così sicuri della riconsegna dell’intera tela per l’assoluta onestà delle monache. Nel monastero di Vita Eterna non si praticava ancora la “vita comune” (le “velate” conducevano una vita a parte rispetto alle consorelle, concedendosi alcuni piccoli lussi nell’alimentazione o nelle cure personali, grazie ai sussidi economici elargiti dalle famiglie di origine); i deputati erano però speranzosi che “fra poche settimane potrà eseguirsi”. Dal punto di vista finanziario gli stessi negarono la presenza di debiti definendo le entrate “bastanti”. Il monastero aveva percepito scudi 160.3.10 a seguito dell’alienazione di una bottega sotto palazzo Sansedoni, venduta allo stesso cavaliere Alessandro Sansedoni. Erano ancora invendute una bottega in Pescheria (valutata scudi 174.4) e due case in Salicotto (valutate rispettivamente scudi 179 e 241), per complessivi cinque appartamenti locati. La causa delle difficoltà a vendere era imputata dai due deputati alla zona popolare dove i beni erano siti e alla natura degli stessi adatti per “abitazione per povera gente”.
Nel dicembre 1787 con la soppressione del convento del Paradiso le monache di Poggio dei Malavolti passarono a Santa Chiara e a Vita Eterna. Per il momento questi due conventi nella zona dei Pispini sono salvi, ma la loro soppressione è solo rimandata di un ventennio.
La soppressione del convento di Vita Eterna risale al 1808, in epoca napoleonica. L’abate Faluschi scriveva, nella sua Breve relazione data alle stampe nel 1815, che l’oratorio intitolato a San Giacinto era stato “donato, recentemente dopo la soppressione”, alla compagnia laicale dei Santi Emidio e Andrea Avellino. Questo pio sodalizio era dedicato a Sant’Emidio (vescovo, 279-309) protettore contro i terremoti e a Sant’Andrea Avellino (1521-1608, santificato nel 1712) a sua volta protettore contro gli accidenti e la morte improvvisa, pertanto non può essere precedente al 1712; inoltre non risulta fra quelli che presentarono una propria relazione alla Balìa e alla Consulta nel 1739, come furono obbligati a fare tutti i luoghi pii laicali grandi e piccoli di Siena; non è citato né nel Diario senese del Gigli, né nel Giornale sanese di Giovanni Antonio Pecci, proseguito dal figlio Pietro fino al 1794, e neppure in altra bibliografia settecentesca. Pertanto ritengo che la compagnia dei Santi Emidio e Andrea Avellino sia stata fondata tra la fine del Settecento e i primi del secolo XIX, quando alcune delle antiche confraternite furono autorizzate a riprendere di nuovo la loro attività devozionale e caritativa; sotto questo nuovo titolo riapparvero probabilmente – è una ipotesi da verificare – i confratelli della soppressa compagnia di Santo Stefano Protomartire che aveva avuto sede fino al 1785 nello stesso territorio nell’omonima chiesa “profanata” e venduta, e il cui cataletto era stato portato appunto in San Giacinto; la scelta dei Santi protettori potrebbe essere legata anche ai timori rimasti nella popolazione di Siena dopo il terribile terremoto del 26 maggio 1798. Le notizie documentarie sicure sulla confraternita dei Santi Emidio e Andrea Avellino partono dal 1813, quando ottenne, come già accennato, la chiesa di San Giacinto. Nel 1840 il pio sodalizio fu ammesso alla Consorteria delle compagnie laicali senesi, di cui continua a fare parte anche ai nostri giorni.
L’Asilo delle vedove senesi
L’evento di maggior rilievo per il fabbricato dell’ex-monastero fu senz’altro la destinazione nel 1852 di una parte consistente all’Istituto Butini-Bourke per le povere vedove, fondato a seguito di un generoso lascito testamentario della senese Maria Assunta Butini, una popolana che era divenuta nobile sposando il conte danese Bourke e che volle così ricordare le sue origini, destinando l’istituto che da lei prese il nome alle donne povere e sole della città natale. L’altra parte del grandioso edificio fu adibita a “Quartiere Militare”, come è precisato nel rifacimento del 1873 ad opera del Bonaiuti della pianta secentesca della città di Siena del Vanni (il convento di Vita Eterna è indicato con il n. 59 del Terzo di S. Martino).
Oggi
Ai nostri giorni il grandioso edificio ha mantenuto per la parte più consistente la destinazione ottocentesca rivolta all’assistenza delle donne senesi; per la restante parte è stato adibito, via via, a scopi sociali e culturali. La chiesa di San Giacinto, oggi conosciuta come Santi Emidio e Andrea Avellino, è ancora ufficiata dalla omonima compagnia laicale. Le tele del Rustichino e i piccoli affreschi del Nasini sono sempre all’interno dell’edificio sacro, mentre il cataletto realizzato da Ventura Salimbeni è stato spostato ultimamente al Museo civico (nell’oratorio ne rimangono le copie delle quattro testate).